Cuori leggeri on the road
“L’oceano oggi è arrabbiato” dico mentre attraversiamo il deserto della NorthShore, diretti in un punto imprecisato nel nulla, sulla furgoneta verde rossa e gialla di Mànaba. Lui mi guarda, ma non dice niente. Proseguiamo adagio, in sottofondo Take Flight, musica yoga che risveglia le anime e rilassa i muscoli. Dondoliamo adagio, noi e la furgoneta. Continuo a guardare l’oceano. Le onde saranno alte quindici piedi e si spengono sulle rocce vulcaniche con una esplosione di schiuma bianca. “L’oceano è proprio arrabbiato oggi” ripeto. Manawa mi guarda ancora. “Non dire che è arrabbiato perché il mio stato d’animo viaggia con gli elementi e io non sento lo stato d’animo della rabbia. E’ allegro e per questo sta ballando”. Viandanti senza meta dondolavamo a ritmo di Take Flight e delle onde che ballavano allegre nell’oceano. In otto sulla casa mobile di Manawa: otto storie, otto creativi e otto cuori leggeri. La più piccola del gruppo ha soli ventiquattro anni, la più grande quarantatre: due donne, due viaggiatrici. Erika, la più giovane, ha passato gli ultimi anni in giro per le Canarie, ma sogna l’India. Conosce però la pazienza del viaggiatore, sa che non è ancora il momento, ma sa anche che in India ci andrà, perché ha appreso la determinazione e il sensibilità dei viaggi che cambiano la vita. Gavina, invece, è una girovaga, un’artista della mano e del cuore. Cammina leggera con gli alberi della vita che costruisce con alluminio e cristalli e che poi vende. Non parla mai del tempo, non le piace. Oggi è qui, domani è lì, ma quel “lì” non sa ancora dov’è e oggi non le importa. Nel mezzo musicisti, artisti di strada e viaggiatori. Otto persone che hanno scelto di fare della propria vita un capolavoro, alla ricerca costante di energia buona e insegnamenti preziosi. Dondolando sulla Nord-Ovest troviamo una vecchia casa di legno, un rifugio in mezzo al nulla. Ci fermiamo e ci lasciamo ospitare. La casa ha una porta chiusa con uno spago. Ce ne sono diverse sparse sull’isola, oggi utilizzate come ripari per nomadi e passanti. La capanna ha una sola stanza. Deve esserci stata da poco una famiglia con dei bambini piccoli. Ci sono ancora i giochi, ordinati su una vecchia panca di legno, e delle ciabattine. In una cassa della frutta un pò di provviste: pasta, una bottiglia di olio consumata a metà, spezie, una scatola di tonno e una bottiglia di vino. E letti. Decidiamo di accamparci lì e di usare il rifugio per la notte.
Manawa prepara caffè con latte in polvere e zucchero di canna per tutti e lo mette nell’unico vaso di vetro che ha nella sua casa mobile. Ci passiamo il caffè di mano in mano, da buoni compagni e fratelli. Francesca ha portato con sé tutta la sua casa raccolta in uno zaino, perché l’essenziale per vivere felice lo porta dentro di sé e lo raccoglie in ogni nuova avventura. Lasciamo la furgoneta accanto alla capanna di legno e ci avviamo a piedi nel deserto vulcanico. Vogliamo raggiungere il Cotillo e rientrare prima che faccia buio. Gente bizzarra e felice con strani cappelli e idee ancora più strane. Creativi in cerca di emozioni in quel nulla che ci acquieta e ci accomuna. Volti conosciuti per caso, riconosciutisi a prima occhiata che percorrono a piedi scalzi un pezzo di strada insieme. Di domani non si parla mai, perché domani è sconosciuto e ognuno proseguirà il suo viaggio con se stesso in cerca di chissà cosa. Quello che conta è oggi e oggi siamo in cammino insieme.
Incontriamo, a ridosso dell’oceano, una vecchia casetta di pietra e andiamo ad odorarne la vita. C’è un piccolo ingresso riparato da bancali di legno. Il tetto è costruito con pietre laviche. Ci sono altre due stanze con dei materassi e delle vecchie lenzuola, ma sembra disabitato da molto tempo. Ci sediamo nell’ingresso a semicerchio a riposare e ascoltare il vento, poi riprendiamo il cammino. La marea si è abbassata, lasciando sulla sabbia e sulle pietre un fitto tappeto di alghe nere, giunte con le ultime correnti. Sono morbide e inodori, un sollievo per chi di noi cammina a piedi scalzi. Nel nulla spunta il faro in lontananza, segno che siamo quasi giunti a destinazione e il deserto e le spiagge si animano un pò, qualche surfista e qualche cavallo qua e là. Ci fermiamo anche noi, ai piedi del Cotillo, su una spiaggia bianca e ci accoccoliamo stretti stretti in un cerchio di pietre che ci ripara dal vento. Mangiamo un pò di frutta e qualche panino. E’ ora di rientrare all’accampamento, ma è distante più di un ora di cammino e siamo stanchi. Decidiamo di tornare in autostop. Sono le quattro del pomeriggio, orario favorevole per trovare qualche macchina che si addentra nel deserto. Ci dividiamo in piccoli gruppetti e camminiamo a una distanza di circa cento metri l’uno dall’altro. Il problema a Fuerteventura non è trovare un passaggio, ma trovare le macchine. C’è un passaggio discontinuo e sporadico, eppure quelle poche macchine ci caricano a bordo senza problemi. Conosciamo Raul, surfista spagnolo che ha appena finito il suo turno di lavoro in aeroporto ed è pronto per le onde. Ci carica a bordo e ci facciamo spazio tra la tavola da surf e le mute. Allunga di qualche chilometro per portarci fino all’accampamento e ci racconta di lui con la voce serena di chi ha trovato la sua dimensione nel mondo.
“Io sono nato in città e dopo anni di lavoro in giacca e cravatta mi sono regalato il mio angolo di paradiso. A Fuerteventura ho trovato la mia dimensione e ogni giorno è una sfida e un regalo. Oggi lavoro e faccio surf. Domani forse smetterò di lavorare e continuerò con il surf e poi chissà, forse riprenderò il mio viaggio. Fino a quando sono felice non voglio fare programmi”. Salutiamo Raul con una stretta di mano piena di rispetto e fratellanza. Io e Manaba siamo i primi a tornare al campo così decidiamo di iniziare a raccogliere la legna. Fra qualche ora sarà buio pesto. Complici le forti correnti degli ultimi giorni tra le pietre e la sabbia troviamo pezzi di bancali e rametti secchi. L’accatastiamo a ridosso della capanna e prepariamo il tè. Vediamo una macchina in lontananza e restiamo in attesa. Avrà caricato qualcuno dei nostri compagni? La macchina si ferma e scendono in tre. Poi arrivano gli ultimi tre e il gruppo è di nuovo al completo.
Il bello di percorrere un pezzo di strada con artisti e gente di mondo è che ogni momento è ricco di creatività. I ragazzi iniziano a improvvisare con chitarra e tamburi africani. Vanno a orecchio e sensazioni, amalgamano ritmo e vibrazioni creando una musica ordinata e pulita. Qualcuno si è ritagliato uno spazio di beata solitudine poco lontano dall’accampamento per meditare e contemplare il cielo mentre si colora di caldo in vista del tramonto. Il vento si è acquietato e l’aria si era irrigidita in vista della notte. Il fuoco verrà accesso il più tardi possibile per evitare di finire presto la legna e trovarci sprovvisti nel freddo della notte. Per logica andrebbe infilato un indumento alla volta a distanze regolate per sopportare il freddo il più a lungo possibile e così facciamo. Ci rannicchiamo ai piedi della casetta in legno, compartendo le coperte che abbiamo con noi. I ragazzi continuano a regalarci musica, mentre il sole va a dormire a Ovest. E’ il tramonto e ci godiamo gli ultimi raggi del sole stretti nelle nostre coperte, uno accanto all’altro. Poi scoppia la notte e Francesca illumina l’oscurità con lo spettacolo di Fire Poi. Con le bolas infuocate danza nella notte al ritmo dei tamburi.
Intanto noi beviamo latte e cioccolato dal solito vaso comune che passa di mano in mano. Lo spicchio di luna che si fa spazio tra le migliaia di stelle è a pancia in sù, a formare un sorriso. Anche la luna sorride questa notte e si compiace della compagnia di otto randagi che hanno fatto dell’arte e dei viaggio il loro scopo di vita.
Graziana Morcaldi